17 gennaio 2013

Il morbo di Alzheimer

Questa è la versione breve del post. Se vuoi maggiori informazioni prova a leggere la versione più approfondita.


La cosa inizia così. Un giorno, andando a trovare la nonna, vi rendete conto che sono mesi che vi racconta le stesse imbarazzanti storie sull'infanzia di vostro padre, ma che fa sempre più fatica a ricordarsi quello che le avete detto il giorno prima. Avete una folgorazione: la nonna ha l’Alzheimer! Dopo qualche tempo, fare l'uncinetto o preparare le focacce diventa tremendamente complicato, e un giorno la nonna è costretta a riconoscere, con uno scoraggiante senso di inadeguatezza, di non essere più in grado di svolgere le sue abituali occupazioni. Pian piano il linguaggio si riduce a semplici frasi scollegate e le facce cominciano a confondersi, finché gli stessi nipoti diventano giovani visitatori di incerta origine genealogica.
Gli ultimi anni passano con lo sguardo fisso nel vuoto, nell'apatia di una casa di riposo, in un girovagare disordinato e nervoso.
 
morbo di alzheimer vignetta
Tradotta dall'originale preso qui.


Gli indizi migliori che abbiamo sui meccanismi dell’Alzheimer, provengono dagli studi compiuti su una forma piuttosto rara della malattia, quella familiare. In alcune famiglie, l’Alzheimer si manifesta precocemente (sotto i 50 anni invece che dopo i 65), e viene trasmesso dai malati ai propri figli con una probabilità del 50 per cento. In questi casi la malattia è ereditaria, perché causata da specifiche mutazioni genetiche. La prima mutazione a essere identificata fu trovata nel gene APP, che produce l’omonima proteina. La scoperta fu di  grande importanza, perché permise di chiarire l’origine delle cosiddette placche, una specie di grossi grumi che si formano nel cervello delle persone affette da Alzheimer. La componente principale delle placche era proprio la proteina APP. O piuttosto, non l’intera proteina, ma solo un suo frammento particolarmente appiccicoso, quello centrale. Questo frammento è normalmente bloccato all’interno di APP, ma viene liberato quando la proteina viene “smontata”, il che succede abbastanza spesso. Negli anni, sono state trovate altre mutazioni che causano l’Alzheimer, e tutte sembravano coinvolte nello smantellamento di APP, nella produzione del suo frammento centrale, e quindi delle placche. Si pensava pertanto che fossero proprio le placche a causare la degenerazione cerebrale e la demenza tipica dell’Alzheimer.
Qualche anno fa, si arriva a produrre un attesissimo vaccino contro l’Alzheimer, che non impedisce lo smantellamento di APP, ma elimina il suo frammento centrale dalla circolazione. Per testarlo, lo si prova su un po' di vecchi nei quali già si nota qualche segno di rimbambimento. Il vaccino sembra fare il suo lavoro, le placche si riducono e addirittura scompaiono del tutto in alcuni dei pazienti trattati. Eppure, questi pazienti si ammalano comunque di Alzheimer. Il vaccino è un clamoroso fallimento, ma ha il merito di aprire gli occhi agli scienziati: a guardar bene, sembra che le placche esistano anche negli anziani sani, e non siano quindi una caratteristica (e men che meno una causa) dell'Alzheimer, ma solo un segno di invecchiamento, delle rughe nel cervello.

Negli ultimi anni, si è scoperto che altri due pezzi di APP svolgono importanti funzioni: uno può regolare l’attivazione di alcuni geni; l’altro può uccidere i neuroni con cui viene a contatto ma anche, in condizioni diverse, proteggerli. Pura pazzia. Come capirci qualcosa?

E infatti non ci si capisce granché e, per quella che è diventata una delle più estese, drammatiche e costose epidemie della storia, non esiste ancora una cura e nemmeno un trattamento degno di questo nome. Poi il fatto che non ci siano neppure inutili indicazioni dietetiche per prevenire l’Alzheimer (come la vitamina C o lo yogurt o la carne di cavallo) è veramente sconfortante.

Recentemente, è stato scoperto un nuovo gene collegato alla malattia. E' possibile che questa scoperta aiuti a fare un po' di chiarezza sui meccanismi dell’Alzheimer ma, visti i precedenti, è meglio non farsi troppe illusioni. Quanti anni ancora ci restano prima che il nostro cervello inizi ad atrofizzarsi? Speriamo che siano sufficienti a capirci qualcosa…


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Questa è la versione completa del post. Se ti sembra una noia mostruosa, prova a leggere la versione semplificata.

Quando, in una triste giornata tedesca del 1906, lo psichiatra Alois Alzheimer scoperchiò la scatola cranica della sua (deceduta) paziente Auguste Deter, si trovò davanti uno spettacolo tutt'altro che confortante: la materia grigia appariva come rattrappita ed era punteggiata da innumerevoli piccole masserelle, che Alzheimer denominò placche. La signora Deter, che aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita "sedendo sul letto con un'espressione infelice", incapace di ricordare chi fosse suo marito o anche che ne avesse mai avuto uno, fu la prima vittima riconosciuta del morbo di Alzheimer.
L'Alzheimer è così frequente che quasi tutti hanno avuto occasione di essere testimoni della sua inesorabile progressione, da sbadata distrazione a devastante demenza.

morbo di alzheimer vignetta
Tradotta dall'originale preso qui.
 La prima cosa a far cilecca è la memoria, in particolare quella di nozioni ed eventi recenti. Tuttavia, il fatto che la nonna continui a raccontarvi cose imbarazzanti dell'infanzia di vostro padre, ma non riesca a ricordarsi quello che è successo il giorno prima, potrebbe ancora essere un normale effetto dell'invecchiamento. Ma se dopo qualche tempo le attività che avete sempre associato a vostra nonna (per esempio fare l'uncinetto o preparare le focacce) iniziano a diventare troppo complicate per lei, allora è probabilmente il caso di iniziare a preoccuparsi. Le capacità pratiche declinano progressivamente finché il malato è costretto a riconoscere, con uno scoraggiante (e a volte deprimente) senso di inadeguatezza, di non essere più in grado di svolgere le sue abituali occupazioni. Pian piano anche le storielle alla pierino con vostro padre come protagonista perdono mordente: la memoria si inceppa a cercare le parole giuste e le frasi diventano sempre più semplici e scollegate. Le facce cominciano a confondersi, finché gli stessi nipoti diventano giovani visitatori di incerta origine genealogica.
E' di solito a questo stadio della malattia che tutto il carrozzone che un anziano si porta appresso (ambulanti, negozianti, badanti, parenti) comincia a piluccare le sue finanze, come uno stormo di piccioni la merenda di un bimbo addormentato. Al momento in cui la famiglia si arrende alla necessità di ricorrere ad una casa di riposo, i risparmi di una vita, accumulati e conservati dalla nonna al solo apparente scopo di non utilizzarli, risultano spesso svaniti nel nulla.
morbo di alzheimer vignetta
Presa da qui.
Alla fine arriva anche il momento in cui il malato non è più consapevole della propria crescente inabilità, e non ne prova più dispiacere e vergogna: a questo punto il declino è già piuttosto avanzato. Con il disinteresse subentra spesso l'apatia, la distrazione, la fissità dello sguardo, e un girovagare disordinato e nervoso, senza scopo e senza fine.
Fino a metà degli anni '80, a settant'anni dal primo caso riconosciuto di Alzheimer, non si erano ancora fatti grandi passi avanti nella comprensione delle cause della malattia. Si sapeva che l'Alzheimer colpisce più frequentemente e più precocemente le persone affette da sindrome di Down; e visto che la caratteristica di queste persone è la presenza di una copia in eccesso del cromosoma 21, si sospettava che questo specifico cromosoma contenesse dei geni importanti per l'Alzheimer. Ma quali fossero, rimaneva un mistero.
Alla fine degli anni '80 un'equipe di ricercatori inglesi fu contattata da una signora che aveva visto ammalarsi di Alzheimer, uno dopo l'altro, il padre, quattro degli zii e una buona parte della restante parentela. La signora voleva che gli scienziati studiassero la sua famiglia, una delle pochissime nelle quali l'Alzheimer aveva una causa genetica e veniva sistematicamente trasmesso dai malati ai propri figli, con una probabilità del 50 per cento. La modalità di trasmissione faceva pensare che fosse un errore all'interno di un unico gene a causare la malattia. Confrontando il DNA dei membri sani con quello dei membri malati della famiglia, gli studiosi riuscirono a identificare il gene la cui mutazione causava l'Alzheimer: era APP, localizzato proprio nel cromosoma 21, come suggerito dalla relazione tra sindrome di Down e Alzheimer.
Di solito, studiare un gene mutato (cioè rotto) aiuta a capire il suo normale funzionamento. Per questo ci si aspettava che studiando le rare mutazioni di APP, si arrivasse a comprendere anche i meccanismi che causano l'Alzheimer in quel 99 per cento di malati che non ha nessuna mutazione. Purtroppo - dopo vent'anni di affannose ricerche - il mistero su come esattamente APP causi l'Alzheimer rimane fittissimo. Il problema è che la proteina prodotta dal gene (che si chiama anche lei APP) è decisamente complessa: esiste in molte varianti, si comporta in maniera diversa in parti diverse della cellula e ha anche due sorelle molto somiglianti che fanno più o meno quello che fa lei (qualunque cosa sia), rendendo il quadro d'insieme piuttosto confuso.
La cosa forse più complicata di tutte è che, per ironia della sorte, APP stessa non arriva quasi mai a morire tranquillamente di vecchiaia. Il suo destino infatti è di essere aggredita da una serie di proteine che la tagliano come fosse sushi, spezzandola in tre tronconi. Ed è molto probabile che siano proprio i singoli pezzi a danneggiare il cervello, e non la versione intera della proteina.
Il segmento centrale di APP, per esempio, è il costituente principale delle placche, identificate già dal dottor Alzheimer nel cervello della sua prima paziente. Questo piccolo frammento è un po' come un bastoncino per giocare a Shangai, ma particolarmente adesivo, e tende perciò ad impilarsi in mucchietti disordinati ma piuttosto stabili e compatti. Questi a loro volta si incollano gli uni agli altri come tocchetti di mozzarella riscaldati, diventando degli ammassi privi di grazia, le placche, che restano parcheggiate, in flagrante divieto, là dove si sono formate, nel bel mezzo del cervello. Sembra logico pensare che per il cervello queste placche possano essere quantomeno indigeste (un po' come una peperonata a colazione) e che siano proprio loro la causa della degenerazione cerebrale e quindi della demenza.


Seguendo questa possibilità, la ricerca si è concentrata per anni sulla maniera di eliminare il pezzettino centrale di APP dalla circolazione e impedirgli quindi di formare le placche. Un bel giorno si arriva a produrre un vaccino contro il fastidioso frammento. Per testarlo, lo si prova su un po' di vecchi nei quali già si nota qualche segno di rimbambimento. Il vaccino sembra fare il suo lavoro, le placche addirittura sono scomparse del tutto in alcuni dei pazienti trattati. Eppure, anche senza avere le placche, questi pazienti si ammalano comunque di Alzheimer, proprio come quelli che non erano stati vaccinati.
E' un clamoroso fallimento.
Ma anche una importante indicazione. A guardar bene, sembra che le placche esistano anche negli anziani sani, e non siano quindi una caratteristica (e men che meno una causa) dell'Alzheimer - come si è creduto per circa un secolo - ma solo un segno di invecchiamento, delle rughe nel cervello.
Nel frattempo si è scoperto che anche gli altri due pezzi di APP sono tutt'altro che semplici scarti: possono regolare la funzione di alcuni geni, possono uccidere i neuroni con cui vengono a contatto ma anche, in condizioni diverse, proteggerli, tenerli in vita. Pura pazzia. Come capirci qualcosa?
E infatti non ci si capisce granché, e per quella che è diventata una delle più estese, drammatiche e costose epidemie della storia non c'è ancora una cura e nemmeno un trattamento degno di questo nome. Poi il fatto che non ci siano neppure inutili indicazioni dietetiche per prevenirla (come la vitamina C o lo yogurt o la carne di cavallo) è veramente sconfortante. E più la popolazione invecchia, più malati ci saranno: circa il 25% degli ultra ottantacinquenni è affetto da Alzheimer.
Recentemente è stato scoperto un nuovo fattore di rischio genetico per la malattia. In pratica, se hai una particolare variante (piuttosto rara) di un particolare gene, hai un rischio più alto (circa triplicato) di sviluppare l'Alzheimer. Il gene è implicato nella regolazione del sistema immunitario, che molti credevano non avesse niente a che fare con la malattia. Forse si sbagliavano.
E' possibile che questa scoperta aiuti a fare un po' di chiarezza sui meccanismi della malattia, ma visti i precedenti, è preferibile diffidare, seppur con ottimismo. Nulla impedisce comunque di sperare che ci si capisca qualcosa in più prima che venga anche il nostro turno.

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